Un ragazzo di 23 anni, Musa Balde, originario della Guinea, paese dell’Africa occidentale, è stato selvaggiamente picchiato con bastoni e spranghe da tre uomini a Ventimiglia nei primi giorni dello scorso maggio. Gli aggressori individuati sono due siciliani originari di Agrigento, il terzo proveniente da Palmi, in provincia di Reggio Calabria. Nel filmato dell’episodio che ha subito fatto il giro della rete si sentono anche le urla di una donna che, spaventata dall’esplosione di violenza, chiede l’intervento di qualcuno perché sembra che gli aggressori stiano uccidendo il ragazzo. Il pestaggio pare aver avuto origine dal tentativo di furto del cellulare di uno dei tre.
Un ragazzo africano e un cellulare
Il pensiero va subito al Coltan e al Congo. Il Coltan è un materiale molto prezioso, sorta di sabbia nera leggermente radioattiva da cui si estrae il tantalio, usato particolarmente nell’industria della telefonia mobile, in quella aerospaziale e per la componentistica dei computer. Risulta particolarmente pregiato perché aumenta la potenza dei dispositivi, riducendo il consumo di energia, cosa di estrema importanza, ad esempio, per la maggior durata delle batterie dei telefoni cellulari. Lo sviluppo della new economy rende, dunque, particolarmente indispensabile questa materia che, per l’80% del suo quantitativo, proviene dal Congo.
I “signori della guerra” in Congo
Grande quanto tutta l’Europa, il Congo è il paese più ricco al mondo dal punto di vista minerario ma, paradossalmente, è anche uno degli stati più poveri della terra per quanto riguarda le condizioni di vita. Kivu, la zona dove maggiormente si trova il Coltan, è parecchio distante dalla capitale e manca di quelle infrastrutture che potrebbero collegarla al resto del paese. Questo ha trasformato la regione in una sorta di terra di nessuno e ha permesso ai “signori della guerra” di diventare i principali interlocutori delle grandi multinazionali. Sostanzialmente, il mercato del Coltan è senza controllo. Chi lo estrae – adulti, ma più frequentemente bambini – spesso lo fa scavando a mani nude, condannandosi, così, allo sviluppo di gravi malattie a causa della radioattività (compromissione di cuore, vasi sanguigni, cervello e cute; riduzione della produzione di cellule ematiche e danneggiamento dell’apparato digerente; aumento dei rischi di cancro; difetti genetici nella prole; malattie dell’apparato linfatico).
Ma la piaga più gravosa sono le continue guerre scatenate dagli ingenti interessi economici in gioco. Secondo l’Onu, ad oggi sono più di undici milioni i morti dovuti agli scontri armati, mascherati dalle autorità competenti sotto la forma di conflitti tribali. Così si esprime Jean Léonard Touadi, congolese di nazionalità italiana, giornalista e docente di Geografia dello sviluppo dell’Africa presso l’Università Tor Vergata di Roma: «Dopo la caduta del muro di Berlino, la maggior parte delle guerre in Africa ha avuto come mira la conquista delle materie prime. E potremmo anche chiamarle guerre tribali [quelle che si consumano in queste zone, visto che tale è l’etichetta con cui si cerca di camuffarle] solo se considerassimo le multinazionali che ne traggono profitto come delle grandi etnie, delle grandi tribù»
La diffusione delle nuove tecnologie
Se le pratiche che stanno dietro alla produzione degli oggetti tecnologici determinano schiavitù e morte, altrettanto violenti e distruttivi sono i procedimenti per disfarsene. La diffusione massiccia delle nuove tecnologie ha gettato sul mercato una gran quantità di prodotti che diventano obsoleti nell’arco di un tempo brevissimo, cosa che fa nascere un’enorme quantità di rifiuti di cui doversi liberare.
Agbogbloshie, quartiere alla periferia di Accra, capitale del Ghana, è la più grande discarica esistente al mondo per quello che riguarda i manufatti tecnologici. Nella discarica non esistono impianti di riciclaggio e, per lo smaltimento dei rifiuti, viene usata la combustione che rilascia nell’aria sostanze altamente tossiche come piombo e mercurio. L’inquinamento si diffonde anche alle falde acquifere che vanno ai terreni circostanti, dove si pratica l’allevamento del bestiame. Per queste spaventose condizioni di vita e per la criminalità dilagante, il luogo è stato soprannominato Sodoma e Gomorra. (significativo, al riguardo, il filmato Welcome to Sodom di Florian Weigensamer e Christian Krönes, proiettato al Festival dei Popoli il 6 novembre 2019).
Il prezzo umano della modernità
Una distruttività raccapricciante che riduce i luoghi e le persone a paesaggi infernali, spaventosi gironi danteschi. Il lato oscuro e spregevole della nostra civiltà dei consumi che cerca di nascondere in luoghi lontani e apparentemente occulti il prezzo terribile della modernità. Dietro la patina lucente di una vita sempre più emendata dalla mancanza, sempre più libera dai vincoli soffocanti della materia, l’orrore di una brutalità inaccettabile, dove tutto è primitivo e antecedente ad ogni maturazione, sotto l’egida di un’avidità incapace di discriminare tra bene e male, impossibilitata ad alcuna responsabilità, inadatta alla pazienza e all’intelligenza della cura. Tutto ciò che è fragile, delicato, tutto ciò che deve crescere è spazzato via dalla fame smodata di un possesso mai appagato.
Il volto scisso del moderno
Questo è il volto tragicamente scisso dell’essere umano che oggi noi tutti siamo ed è questa la miseria profonda che condanna ognuno all’abisso di una immedicata solitudine. Le parole di Paul Auster sembrano ben descrivere il senso emotivo della condizione di cui stiamo parlando: «Questa è la terra delle ultime cose; a una a una scompaiono e non ritornano più. Niente dura, nemmeno i pensieri dentro di te. Un nulla senza fondo, il vuoto di una fame sino alla bramosia. Si mangia senza mai saziarsi, accanendosi sul cibo con impeto animalesco, strappandolo con dita ossute, masticandolo con mascelle tremanti. Gran parte di quanto è in bocca cola giù lungo il mento, quello che si riesce ad inghiottire, è vomitato dopo pochi minuti. È come se il cibo fosse un fuoco, una follia che brucia dall’interno. Spolpati vivi da un terrore inestinguibile. E le cose continuano a disfarsi, e svaniscono e niente di nuovo viene creato. Quando scompare la speranza, gli spazi vuoti sono riempiti da sogni, fantasie, piccole storie infantili. Qualcosa che appartiene al linguaggio dei fantasmi. Morire in un secondo, cancellare se stessi in un breve e glorioso momento. A volte penso che la morte sia l’unica cosa che davvero ci interessa. È la nostra forma d’arte, l’unico modo per esprimere noi stessi. Pertanto, ogni volta che giri l’angolo, trovi cadaveri sul marciapiedi, sotto i portoni, sulla strada stessa. […] Qui non c’è nulla che si spezzi tanto in fretta quanto il cuore».
Lungo una strada di Ventimiglia, uno dei primi giorni del maggio appena terminato, quattro uomini si sono incontrati. Uno di essi, il più giovane, è povero al punto da ridursi a tentare di rubare l’oggetto simbolo del nostro tempo, un apparecchio che, ironia della sorte, dovrebbe servire a comunicare e che, invece, trattiene ancora le impronte di piccole dita definitivamente irradiate. Un ragazzo che si è lanciato in un’avventura terribile, ha rischiato la vita per abbandonare luoghi senza speranza, immaginando qualcosa di migliore. Ma la povertà gli è rimasta attaccata addosso come la solitudine dell’esclusione e della mancanza di punti di riferimento.
Miseria soffocante e destini inaccettabili
Gli altri uomini reagiscono al tentativo di furto con una violenza non commisurata. Come se fossero in frenetica attesa di un evento adatto ad esprimere tutta la loro disperazione e la rabbia compatta che la sensazione di non contare niente può sedimentare dentro al cuore. Forse anche loro avevano sperato di poter essere, da grandi, diversi e migliori. I tre uomini vengono denunciati a piede libero, il ragazzo curato in ospedale, ma anche scoperto come irregolare. Per questo, alle dimissioni, viene accompagnato al Centro per il Rimpatrio di Torino. Dovrà tornare a quella Agbogbloshie, a quell’inferno da cui è scappato. Dopo quindici giorni dai fatti di cronaca si toglie la vita. Agli altri tre rimarrà l’orrore di avere assassinato un ragazzo e la sua esistenza ancora tutta da vivere.
È la trama di un racconto sconsolante intessuto da una società – la nostra – che non ha rispetto per l’esistenza di nessuno e lascia chi la abita sguarnito degli strumenti essenziali per condurre la sua stessa vita.
La nuova povertà: la miseria della perdita di valori
Sembra un trito luogo comune, ma tristemente davvero il mondo globalizzato crede fondamentalmente solo nel profitto e in ciò che con il profitto si può comprare. Non c’è niente che abbia valore e debba essere protetto di fronte al guadagno, non la terra e le sue risorse, non l’individualità degli esseri che la popolano. Nemmeno quella dei più piccoli tra essi, dei bambini reificati a mezzi, usati senza riguardo come utensili sino a che di questo uso sconsiderato non giungono anche a morire.
Le funzioni mature della mente, quelle che costa così tanta fatica acquisire nel corso dello sviluppo, quelle che riducono le pretese onnipotenti in modo da poter incontrare l’altro senza sopraffazione reciproca, queste funzioni capaci di conservare un’immagine di noi stessi sufficientemente buona, non vengono coltivate dalla società, ma, al contrario, considerate come debolezze in grado di produrre dubbi da eliminare radicalmente. È in questo senso che conosciamo una nuova povertà ossia la miseria di una interiorità dove non possiamo più conservare e ritrovare ciò che ci fa sentire di avere un valore. Non occorre essere un abitante di Agbogbloshie per essere spogliati di tutto e mancare di ciò che è fondamentale per la vita.
Foto credit: IG @PaulBlow