Gioco: qualunque attività a cui si dedicano bambini o adulti senza altri fini immediati che lo svago. Questo ci dice il vocabolario e partiamo da qui per comprendere il valore inestimabile del gioco nella vita degli umani. Possiamo costruire due serie di parole che stanno come schieramenti opposti ad indicare due modi di “stare nel mondo”: creativi, attivi, solidi, elastici, vivi, ubbidienti, passivi, fragili, rigidi, spenti.
Ecco, l’aver potuto giocare è la chiave di volta per entrare nella vita nel primo modo, quello che ci fa attori e coautori del nostro esistere, proteggendoci dal rischio di scivolare in un grigiore che ci rende appiattiti e inespressi nelle nostre potenzialità umane. Il gioco è attività altamente seria, è l’accesso alla conoscenza, all’esplorazione, alla curiosità, ma anche alla fiducia che ciò che si presta all’esplorazione sia sufficientemente favorevole da non costituire una minaccia paralizzante.
Nascere non è un gioco
Andiamo per piccoli passi risalendo ai primi momenti di vita del piccolo umano. Nasciamo alla vita all’interno di una relazione. È la relazione che consente al neo-arrivato di sopravvivere e piano piano di nascere emotivamente: la nascita biologica è la prima, ma poi dobbiamo nascere come individualità ‘psicofisiche’ che riconoscono una propria Unità, distinta e separata da tutto quanto non è il proprio Sé.
In sintesi abbiamo bisogno di un tempo-qualche mese- di esperienze di accudimento all’interno di un legame affettivo solido per costituire un nucleo di sensazioni-emozioni che ci consentano di porre i primi confini tra un embrionale Me e tutto il resto esistente che, in quanto separato e distinto da me, possiamo riconoscere come non-Me.
Questo è un processo spontaneo verso lo sviluppo, insito nella natura umana, ma i modi in cui accade dipendono fortemente dalla disposizione del mondo adulto nei confronti del piccolo. Il bambino conosce il mondo e se stesso attraverso gli occhi della madre, l’accesso al reale è mediato da una mente adulta che ‘presenta’ e offre al bambino la propria visione delle cose esterne e del bambino stesso. Noi ci vediamo attraverso l’immagine che l’Altro ha di noi.
L’esperienza del gioco come scambio
Qui, agli albori della vita e della coscienza è fondamentale la presenza di quel tipo particolare di esperienza che chiamiamo gioco. È essenziale perché il gioco in senso psicologico non è né il giocattolo, né una serie di regole che definiscono un’attività. È un’esperienza complessa, relazionale, di scambio. Possiede qualità specifiche che la rendono fondamentale per porre le basi della salute mentale e di una crescita emotiva libera e sicura: libertà, affidabilità, coerenza, desiderio, curiosità, scambio, fiducia.
Ha bisogno di uno spazio e di un tempo in cui due menti riescono ad ‘incontrarsi’ e a ‘creare’ mondo. È cioè un momento di assoluta creatività in cui gli attori coinvolti possono godere del privilegio di transitare in una dimensione di ‘illusione’ in cui il concreto già presente e l’immaginato si intrecciano e si con-fondono, dando vita ad una rappresentazione immaginativa, ad una trama narrativa che appartiene contemporaneamente al soggettivo (ciò che ho creato a partire da me) e all’oggettivo (ciò che ho trovato nel mondo esterno).
La presentazione del mondo al bambino
Se l’adulto è disponibile, nel legame affettivo, a questo tipo di coinvolgimento emotivo che chiamiamo gioco, la presentazione del mondo al bambino e del bambino al mondo avverrà nel migliore dei modi e potrà sentirsi capace di uscire dai piccoli confini del suo Sé; potrà andare verso l’Altro con il desiderio appassionato della scoperta e della sensazione di essere reale e di poter contribuire attivamente alla quotidiana creazione del mondo in cui vive.
Possiamo descrivere questa situazione usando le parole di un paziente di Winnicott: «All’inizio l’individuo è come una bolla. Se la pressione dell’attività esterna si adatta attivamente alla pressione interna, allora è la bolla ad essere la cosa significativa, cioè il sé del lattante. Se, però, la pressione ambientale è maggiore o minore della pressione della bolla, in quel caso non è la bolla ad essere importante, ma l’ambiente. La bolla si adatta alla pressione esterna».
Mantenere una visione creativa
Un atteggiamento sensibile, rispettoso e disponibile da parte dell’adulto-ambiente, tutte pre-condizioni per il gioco, permette al bambino di accedere con gradualità alle richieste di adattamento, e la gradualità sentita come riconoscimento del Sé, consente di mantenere una visione creativa: il mio Sé non ha dovuto sottostare a delle richieste premature e quindi improprie, ha potuto nutrirsi dell’illusione di avere a che fare con un mondo creato-trovato, non ha dovuto ritirarsi lasciando il posto ad un debole, fragile e ubbidiente Falso-Sé . È vivo e si sente reale.
Quanto ci mettiamo in gioco?
Possiamo cogliere l’importante funzione del gioco ritrovandolo come un fil rouge nelle fasi successive della vita in esperienze emotivamente fondanti: la cultura, l’arte, le religioni. Negli spazi cioè dove il desiderio di conoscenza e di scoperta possono diventare assi portanti di una ricca vita interiore, oppure lasciare tristemente il posto a dottrine erudite che non sono capaci di nutrire e tenere viva la passione. La differenza tra le due soluzioni è data da quanta capacità di gioco abbiamo potuto far crescere dentro di noi.
Questo pilastro del nostro esistere è correlato anche con un altro aspetto molto importante nella vita adulta, la fiducia. Secondo Fonagy poiché non siamo in grado di valutare da soli i contenuti delle varie informazioni che ci arrivano né di affrontare da soli la moltitudine di sfide che la vita ci presenta, si è evoluto un sistema che ci permette di distinguere tra persone affidabili, che ci consentono di apprendere, e persone inaffidabili, male informate e male intenzionate.
Ma come riconosciamo le persone affidabili? Secondo Fonagy, a guidarci nella scelta di persone in cui avere fiducia è un preciso criterio: ci fidiamo delle persone che “ci riconoscono”. Capire che il nostro interlocutore è interessato a noi, e comprende il nostro stato d’animo, innesca un canale protetto evolutivamente e questa capacità ha radici nella prima esperienza di reciprocità creativa sperimentata nel gioco.
Il riconoscimento, crea il senso di un “mondo giusto”, come ci dice Jessica Benjamin. Se riusciamo a raggiungere questa posizione, diventiamo capaci di pensare che le cose sbagliate possano essere corrette, e che-se ciò non è possibile- almeno possano essere riconosciute e affiancate a ciò che è giusto.
Ecco perché una comunicazione contrassegnata da un riconoscimento dell’ascoltatore è più efficace: ha maggiore probabilità che venga accettata, e innesca la capacità di apprendere. Questo vale anche per la psicoterapia: l’esperienza di essere compreso genera un senso di sicurezza e fiducia, che a sua volta rende possibile l’esplorazione mentale, permettendo di focalizzare insieme l’attenzione sugli stati mentali di paziente e terapeuta.
Il gioco in psicoterapia
Anche la psicoterapia deve molto della sua capacità trasformativa al Gioco come atteggiamento mentale di fondo per permettere a paziente e terapeuta di esplorare in modo graduale creativo e nuovo ambiti dell’esperienza emotiva che ancora non erano accessibili all’esplorazione, potendo ampliare una cura di sé che è consapevolezza, creatività, passione, possibilità di non indietreggiare di fronte alle sfide della vita. Il gioco è movimento vitale, solo conservando una prospettiva creativa potremo batterci per essere presenti, attivi e responsabili di questo tempo impreciso e ineffabile che è la nostra vita.