E se fossimo tutti “dividui”?

Mag 7, 2021 | Io, tu, noi

Dopo secoli di teorie individualiste, la situazione attuale non può esimerci dal riflettere su quanto tutti gli esseri viventi siano interconnessi. Uno spunto interessante, che proviene dalle ricerche antropologiche sul concetto di persona, è la proposta di considerare l’essere umano in termini di “dividualità”, anziché di “individualità”. L’individuo è infatti un’entità integra e compatta, a cui si possono aggiungere relazioni dall’esterno; il “dividuo” è invece un luogo, un’area di esperienza, fatto esso stesso di relazioni.

L’antropologa inglese Strathern, specialista dell’area melanesiana, scrive: «Lungi dall’essere considerate come entità uniche, le persone in Melanesia sono concepite sia in termini dividuali sia in termini individuali. Esse contengono al loro interno una società generalizzata. In effetti, le persone sono di frequente costruite come i luoghi plurali e compositi dove convergono le relazioni che le producono. La singola persona può quindi essere immaginata come un microcosmo sociale».

Qual è l’apporto che può fornire la nozione di “dividuo”?

Esso consiste nell’introdurre esplicitamente la socialità all’interno di ciò che chiamiamo io, persona, sé. In altre parole, non si tratta soltanto di inserire o di collocare gli individui in un contesto relazionale e sostenere che essi non possono farne a meno; si tratta invece di concepire in maniera più radicale gli umani come esseri intrinsecamente sociali, in quanto essi, lungi dall’essere individui, coincidono con il fascio di relazioni che li formano, contengono al loro interno molteplicità e socialità. E allora quando il mondo delle relazioni interne ed esterne è in armonia la mente raggiunge uno stato di equilibrio e serenità; quando ci sono rotture, sabotaggi, colpi di stato, conflitti, si apre la strada per l’insinuarsi della sofferenza psichica ed esistenziale.

Addentriamoci ancora un po’ nel significato di questo termine originale, per cercare di capire meglio la socialità con cui i “dividui” sono fatti al loro interno: in altre parole, i “dividui” sono grumi di somiglianze e di differenze. La loro socialità (interna ed esterna) è fatta principalmente di questo composto. A ogni istante il soggetto si trova implicato in un dinamismo più o meno profondo del suo groviglio di relazioni. Immaginiamo il soggetto S messo di fronte a un evento E: tale evento, nel momento in cui è vissuto, viene reso “simile e differente” rispetto a eventi precedenti e andrà a sedimentarsi in un miscuglio più o meno consapevole. Il groviglio interno del soggetto non rimane immobile: anche se di poco, il processo di assomigliamento/differenziamento indotto dall’evento E lo modificherà, provocando così modifiche dello stesso soggetto.

Il soggetto, inoltre, contiene in sé una ramificazione impressionante di relazioni, alcune delle quali consapevoli, altre meno e altre del tutto inconsce. Potremmo azzardare a dire che il sistema interno di somiglianze e differenze di un dividuo ha la stessa complessità di connessioni dei neuroni del suo cervello: forse, in un certo senso, si tratta delle due facce di uno stesso fenomeno. Proprio come la corteccia cerebrale, il dividuo esibisce una sbalorditiva potenzialità, ovvero una enorme molteplicità di connessioni potenziali.

Nel nostro lavoro clinico ogni giorno siamo messi di fronte a quanto la personalità di ogni persona sia strettamente connessa alle molteplici esperienze che hanno caratterizzato la sua vita, e soprattutto alla qualità delle relazioni nel quale è stato immerso fin dalla sua nascita. Allo stesso tempo constatiamo quanto la nuova relazione terapeutica possa determinare nuove possibilità, nuove connessioni, si possono scoprire aspetti meno consapevoli o inconsci, che rivissuti all’interno di una nuova relazione possono creare esiti differenti e cambiamenti importanti.

Come mai nella società occidentale è imperante una concezione individualistica dell’uomo?

Una delle cause potrebbe essere la “divinizzazione” dell’uomo: con l’individualismo l’uomo è infatti sottratto alle dinamiche trasformative del suo mondo interno fatto di somiglianze e differenze con tutti gli altri esseri viventi, l’essere umano è sottratto a ciò che possiamo chiamare la mortalità minuta e inesorabile delle continue trasformazioni in cui è coinvolto fin nel suo intimo. Anziché essere in balia degli altri e delle relazioni con gli altri, i soggetti si possono così pensare come ancorati a sé stessi, autodelimitandosi come entità separate, autonome: entità che trovano in sé stesse il proprio principio e la propria ragione.

Questa rappresentazione dell’Io mi fa pensare ad alcune persone che incontro nel mio lavoro, pazienti distanti da tutto e da tutti, diffidenti, convinti di non aver bisogno di nessuno, trincerati dietro ad una corazza di individualismo, ma in un’ultima analisi soli e spaventati, desiderosi di essere infine avvicinati, trovati, riconosciuti.

Per contrasto con l’immagine dei piccoli déi, forse conviene ricordare quanto affermava Aristotele sulla natura profondamente sociale dell’essere umano, definito – come tutti sanno – zoon politikon, ovvero animale politico. Per Aristotele, colui che ritiene di essere «autosufficiente», di bastare a sé stesso, sottraendosi alla rete sociale della polis, del consorzio umano, sarà non un uomo, bensì inevitabilmente «o una belva o un dio».

È facile pensare alle personalità narcisistiche, tronfie nella loro idea di superiorità, che necessitano di ammirazione e mancano di sensibilità, o all’isolamento risoluto, a volte ostile, di quelle persone solitarie che predano il mondo per poi portare il bottino nella tana, dove sentirsi finalmente al sicuro: la trasformazione dell’essere umano in dio o, in alternativa, in un animale feroce, senza legami sociali da cui dipendere e a cui affidarsi.

Tutti noi (europei e occidentali) siamo infatti nati, cresciuti e vissuti in una società in cui la concezione individuale dell’essere umano è considerata del tutto naturale e proprio per questo indiscutibile e irrinunciabile. Provare a farne a meno è un’impresa molto difficile, per alcuni impossibile, per altri interamente assurda, riprovevole, che comporta una perdita di umanità. Ma rimanere avviluppati nella concezione individualistica del sé e del soggetto umano significa rimanere pericolosamente imprigionati in una caverna ideologica: una caverna che nel suo chiuso ci impedisce di vedere, riconoscere e valorizzare il groviglio delle somiglianze e differenze di cui siamo fatti.

Gli antropologi sono inclini ad affermare che sono molte le concezioni di persona che troviamo nelle diverse società e che l’individualismo moderno – nonostante si proponga come la vera, autentica e più appropriata concezione dell’essere umano – non sarebbe altro che “una” delle possibili concezioni: una possibilità tra le tante, ma anche una possibilità assai poco reperibile nella grande varietà delle società e delle culture umane.

Nonostante questo nella vita di tutti prevale il pensiero per il quale ogni persona è percepita da altri e da sé come un individuo in un senso veramente forte, cioè come un individuo unico. L’estrema conseguenza di questa rappresentazione è sintetizzata dal pensiero di Stirner, il quale afferma: «Dopo millenni di ipocrisia, di egoisti addormentati, ingannatori di sé, inconsapevoli di sé e della propria natura, è giunto il momento in cui si può gridare: cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga un io onnipotente!».

Un “io” diventato finalmente “dio”: questo è l’esito della rappresentazione dell’individualismo di Stirner, per il quale il mondo, gli altri, sono a disposizione dell’io, fino al punto che il rapporto con gli altri diviene totalmente distruttivo: «Tu non sei per me nient’altro che il mio alimento, così come anche tu, d’altronde, mi consumi e mi usi. Noi abbiamo l’un con l’altro un solo rapporto: quello dell’utilizzabilità, dell’utilità, dell’uso. Noi non ci dobbiamo niente l’un l’altro, perché ciò che sembra che io debba a te lo debbo, se mai, a me stesso». Emerge qui l’immagine degli individui come esseri «già perfetti» a cui non manca nulla. Ma la voracità che affiora nel rapporto con gli altri – tale per cui ogni singolo è «alimento» all’altro – sta a indicare una voragine nell’essere dell’individuo.

Non è vero che a noi, singoli individui, non manca nulla: la nostra stessa voracità, con cui mangiamo gli altri, significa che non siamo affatto “sostanza”, una sostanza duratura, perenne, “impassibile”. La voracità e il desiderio di mangiare e consumare l’altro sono la smentita più chiara della tesi che ha sostenuto da principio la rappresentazione dell’individuo. Come non considerare ciò che tale concezione dell’uomo ha portato oggi? In questo periodo di crisi appare evidente come la voracità degli esseri umani stia conducendo l’umanità verso la distruttività, verso la devastazione della natura, del mondo e in ultima analisi di se stessi. L’individualismo, inoltre, comporta una condizione di incomunicabilità, tanto da affermare che per la persona umana, concepita come individuo, si addice una estrema solitudine: «ad personalitatem requiritur ultima solitudo», nel senso che essa non dipende né attualmente né per attitudine da qualsiasi altra persona.

La persona umana viene sottratta nel suo essere alla rete delle relazioni sociali. Per cui, è diffusa l’idea che non si addice alla persona essere dipendente e comunicabile e ogni persona, nella sua realtà ultima, è inconoscibile all’altra. Oggi la solitudine è un male talmente diffuso da essere considerato quasi una condizione imprescindibile dell’esistenza. Sono davvero tante le persone che si rivolgono a noi psicoterapeuti perché la sensazione di solitudine è diventata talmente profonda, incolmabile, pervasiva, da divenire insopportabile.

L’idea stessa di individuo pone di fronte alla solitudine, perché nega i legami di dipendenza, considerati debolezze, e l’importanza delle relazioni, diventate superflue. Ed è proprio attraverso una relazione importante, nella stanza d’analisi, che si può lentamente ristabilire un contatto, rimettere in moto le infinite potenzialità di rapporto con gli altri, perché in fondo è la qualità affettiva delle relazioni che intratteniamo nella nostra vita che determinano la percezione del nostro benessere psicologico.

Sull’estremo opposto del continuum possiamo però collocare la concezione per la quale esseri viventi entrano in relazioni di identificazione con altri esseri viventi, confusi “nel medesimo flusso di vita” (Leenhardt 1971), dove si annulla la distanza tra loro, come tra il sé e il mondo. La persona si spezza quindi in una molteplicità di identificazioni, di identità particolari senza possibilità d’integrazione. L’esclusività del “codividuo” allora può ricadere in un rapporto simbiotico, con tutte le caratteristiche di costrizione, soffocamento e implosione che da professionisti vediamo spesso in questo tipo di relazioni. Oppure nei casi più gravi, quando i confini del proprio corpo, i limiti tra l’interno e l’esterno, diventano troppo labili, assistiamo all’insorgere della psicosi.

Proprio per questo, l’antropologa inglese ha tentato il compromesso sostenendo che la persona in Melanesia è concepita sia in termini dividuali, sia in termini individuali. Oppure è possibile introdurre un altro termine, altrettanto suggestivo e fecondo, quello di CON-DIVIDUO. È il “condividuo” che ci consente di salvare insieme sia le partecipazioni (o condivisioni), intese come somiglianze e differenze, sia un grado sufficiente di integrazione interna.

Una questione di termini?

Forse quel “con” è assolutamente decisivo per evitare che la partecipazione scivoli unilateralmente verso la dividualità, verso la semplice divisione o spartizione. Il “con”, inoltre, è caratterizzato da una netta gradualità: ci sono “con” stretti o stringenti, che tendono ad avvicinare i termini in questione, fino a sfiorare (solo sfiorare, non raggiungere) l’identità, e “con” laschi, i quali invece acconsentono ai termini di allontanarsi, fino a sfiorare (non raggiungere) la totale separazione, la totale alterità o estraneità. E questa gradualità del “con” vale sia per le condivisioni esterne (l’io e gli altri), sia per le condivisioni interne (le sfumature del mondo interno).

Concepire il soggetto come un con-dividuo significa dunque aprire la strada non solo alla molteplicità delle relazioni in cui è coinvolto, ma anche al carattere irripetibile o unico delle loro manifestazioni e delle loro combinazioni. Peculiarità e singolarità non significano necessariamente individualità: una persona sociale è sempre unica, essendo costituita da una combinazione di relazioni e occupando, di conseguenza, una posizione distinta nel sistema generale delle relazioni.

Altro aspetto che rende questo concetto dinamico e creativo è che il condividuo è sempre incompleto, ovvero un cantiere sempre aperto, ed è pure poroso e malleabile, perché evolve continuamente in risposta alle esperienze relazionali della vita. Se applicare in a dividuo ha il significato di racchiuderlo in sé stesso, facendolo diventare una sostanza dura e identitaria, non dipendente da altri che da sé stesso, applicare invece a dividuo il con significa obbligarsi a prendere in considerazione le convivenze che contrassegnano ogni soggetto.

Il “con” sintetizza perciò gli sforzi, i tentativi, i progetti, le procedure, consapevoli o inconsapevoli, messe in atto per impedire la dispersione insita nella molteplicità costitutiva del singolo. Il “con” sono tutti i fili, gli intrecci, i racconti, le connessioni, le relazioni di somiglianza e di differenza, dunque anche la “coscienza” (da cum-scire), con cui si cerca di garantire la tenuta dell’organizzazione condividuale, il suo stare insieme.

Il con-dividuo è di continuo sottoposto a operazioni sia di dividuazione sia di in-dividuazione, e il soggetto – lungi dall’essere già dato come una sostanza – si forma in termini di funzione, mediante sforzi continui per tenere insieme il tutto a seguito degli effetti sempre destabilizzanti di entrambi i processi (divisione, separazione, taglio e introduzione, acquisizione dall’esterno).

Il che significa che “condividuo” – a differenza di individuo – non è mai una configurazione definitiva, una struttura compiuta, data una volta per tutte: è un misto – per definizione instabile e incompleto – di permanenza e di variazione. Con la sua gradualità, può andare nel senso di un più (più “con”, maggiore coesione) o nel senso di un meno (meno “con”, minore coesione), con i rischi di un irrigidimento da un lato e di una dissoluzione dall’altro. Come viene costruito, così il “con” può dissolversi. La coscienza che si sviluppa nel e attraverso il “con” è anche perciò una coscienza della possibilità della sua fine.

Ma se la funzione del “con” è così decisiva, ciò significa che la vita del condividuo non può che essere un “convivere”: anche solo con sé stesso. È probabile che la coscienza si formi proprio attraverso questa lotta contro la dispersione, e se questa è la sua motivazione più profonda, la coscienza non può che essere anche coscienza della precarietà radicale del condividuo e dell’incombere della sua fine, della sua scomposizione. Noi apparteniamo a una tradizione di pensiero che ha voluto trasformare il dividuum in un individuum, cercando di guadagnare così l’immortalità. Non è un caso che oggi il vero tabù rimasto in piedi nella nostra società sia quello della morte. Elemento dirompente, angosciante, mai come in questi mesi entrato con forza nella mente e nelle case di tutti noi.

Il passaggio da individuo a condividuo

Riportare l’attenzione ai rapporti di somiglianza e di reciproco coinvolgimento tra le “creature”, tra i “mortali”, tra i condividui, così da immaginare i presupposti di una loro possibile convivenza, e nello stesso tempo scorgere somiglianza e differenza all’interno dello stesso condividuo, un essere da sempre intrinsecamente e variabilmente composito, dotato non di una eterna, divina “identità”, bensì di una umana, provvisoria “singolarità”. A me pare che il condividuo sia da leggere come una proposta per recuperare, con un po’ di doverosa saggezza, il senso della nostra compartecipazione e della nostra possibile convivenza con tutti gli altri esseri – umani e non umani – con cui condividiamo somiglianze e mortalità.